Sei secoli di tradizione metallurgica a Kropa, un paese jugoslavo nelle Alpi Giulie Orientali
SLOVENJIA
Rivista della Montagna
n° 106
March 1986
pag. 68 – 73 Text & photo
La strada si insinua tortuosa nella valle stretta e un po’ incassata; gli abeti mostrano quella singolare forma conica e simmetrica che hanno gli alberi di Natale disegnati dai bambini. I tetti spioventi delle case fanno pensare ad un paesaggio di alta montagna, ma il villaggio di Kropa, adagiato su queste dolci pendici delle Alpi Giulie orientali, non respira certo l’aria delle alte quote.
Siamo in Jugoslavia, pochi chilometri appena oltre la frontiera, a sud della statale che da Kranj porta a Radovlica e poi continua in direzione nord, verso il confine italiano per Tolmezzo o austriaco per Villach. Per la precisione, anzi, siamo in Slovenia, sulle estreme propaggini orientali delle Alpi, vicino agli incantevoli scenari dei laghi di Bled e di Bohinj e delle scoscese pareti del Triglav. L’interesse che ci ha spinti fin qui, tuttavia, non è alpinistico ma principalmente umano: Kropa è una delle fucine più vecchie d’Europa. È riuscita a mantenere nei secoli una tradizione di miniera, di fonderia e di arte nella lavorazione del ferro, che si è sposata felicemente Con la cultura montanara della regione, assumendo una fisionomia del tutto eccezionale.
“Ho cominciato a guadagnarmi da vivere nel 1938, a quattordici anni. La paga era bassa, e si lavorava in due: un operaio e un garzone. Naturalmente a modellare il ferro erano gli operai, mentre i garzoni facevano in modo che non mancassero mai i pezzi pronti: controllavano il fuoco e la preparazione del materiale da lavorare, imparando a poco a poco il mestiere”. Chi racconta è Jakop Zupan, nativo di Kropa, che ha lavorato il ferro per molti anni, fino al suo recente ritiro dalla professione per raggiunti limiti di età. Jakop è anche uno degli ultimi lavoratori del villaggio che ha trascorso il periodo del suo apprendistato producendo soprattutto chiodi.
Sei secoli di storia
La storia di Kropa industriale è piuttosto complessa. Se i primi insediamenti umani trovati nella località risalgono all’epoca romana, le prime vicende storiche Conosciute Sono databili alla fine del Medio EVo (la chiesa parrocchiale di San Leonardo, ad esempio, è del 1481). Documenti storici sull’attività metallurgica in Kropa risalgono al XIV secolo. In quel periodo, i signori feudali investirono i mastri ferrai di pieni poteri per lo sfruttamento dei giacimenti e per l’uso del legname dei boschi come combustibile. Un paio di secoli più tardi – per la precisione il 3 gennaio 1550 – l’imperatore Ferdinando I emanò l’editto di produzione e vendita per le miniere di Kropa, Kalmna Goriya e Kalnica. L’attività siderurgica ebbe un notevole sviluppo nel XVII secolo, e di quel periodo si può ancora oggi ammirare la casa “Macolova” del 1620.
Fu proprio in quegli anni che si venne perfezionando quel tipo di fornace conosciuta con il nome di “fornace slovena”. Alle prime, rudimentali fornaci a corrente d’aria, ne erano seguite altre, con mantici attivati manualmente o con i piedi e più tardi mossi con l’aiuto dell’energia ricavata da mulini ad acqua (ecco perché spesso le fornaci venivano erette lungo fiumi e torrenti). Già prima del 1579 esistevano nella zona otto officine collettive. In ognuna di queste lavoravano parecchie famiglie che certamente non dovevano condurre un’esistenza agiata. La norma, allora, era quella di allevare sette-otto figli e tutti, genitori e prole, vivevano in una sola stanza sia per mangiare che per dormire.
Nel XVIII secolo la produzione metallurgica raggiunse le 400 tonnellate di ferro annue, e tutto ciò utilizzando qualcosa come 1200 tonnellate di carbone di legna. Pur sotto la diretta giurisdizione della corona asburgica, in questo periodo l’autonomia di Kropa era così ampia che all’interno della comunità circolava una moneta di ferro coniato in loco.
Milioni di chiodi per l’esercito austro-ungarico. L’attività siderurgica di Kropa prosperò sino a quando, in epoca napoleonica, ebbe inizio lo sfruttamento dei giacimenti svedesi, assai più redditizi.
“A quanto si dice, pare che l’ultima fornace abbia smesso di lavorare intorno alla fine del secolo scorso”, continua Jakop. “Quasi immediatamente arrivò la crisi, e tutti si ritrovarono senza occupazione. Fu allora che si cambiò lavorazione. Anziché produrre il ferro, lo si importò da altri Paesi, e i maestri artigiani decisero di dedicarsi alla produzione di chiodi. Chiodi di tutte le misure e per tutti gli usi, ognuno ricavato da un unico pezzo di ferro anche se il risultato finale si presentava in forme assai diverse tra loro. Quand’ero giovane, tutti in paese facevano chiodi”.
Quasi tutti i chiodi degli scarponi in dotazione all’esercito austro-ungarico furono prodotti a Kropa: migliaia, milioni di chiodi… “Dopo la prima guerra mondiale li si produsse per l’esercito jugoslavo. Dopo l’ultima guerra gli americani introdussero le suole di gomma, e per i chiodi fu la fine. Ci fu un altro periodo di crisi, ma i mastri ferrai riuscirono nuovamente a riconvertire la produzione”.
Oggi il signor Zupan si gode il meritato riposo. L’ordinamento socio-economico jugoslavo non consente l’attività artigianale privata, ma l’esperienza di Jakop e dei suoi compaesani non è andata perduta. Alla cooperativa UKO la tradizione della lavorazione del ferro battuto è mantenuta viva da più di ottanta soci tra mastri e apprendisti, e i suoi lavori sono estremamente apprezzati.
Tutto a mano come un tempo
La luce accecante di un cannello della fiamma ossidrica ci accoglie in una spruzzata di scintille non appena varchiamo la soglia di un laboratorio moderno. Più in là un giovane robusto sta martellando una barra che a poco a poco si trasforma nella metà di una cerniera per porte. Su un’altra incudine, con incredibile facilità e sotto la mano esperta di un altro operaio, una manciata di barrette quadrate sta diventando un mucchietto di riccioli di un’eleganza incredibile.
“Ormai operiamo in ambienti e con strumenti moderni; ma il metodo di lavorazione rimane esclusivamente manuale. Soprattutto, ciò che lavoriamo è inizialmente solo ferro grezzo, che modelliamo con le tecniche tradizionali”. Così ci viene incontro Andrei Markelj, un giovane di neanche trent’anni, occhi chiari e capelli biondi, che in un buon inglese ci illustra illavoro dell’azienda di cui è il responsabile commerciale.
“Lavoriamo soprattutto con la Germania e per l’industria. La nostra produzione è assorbita per i160% dall’industria (sia jugoslava che straniera); il 10% finisce direttamente e nei negozi tedeschi, un altro 20% nei negozi jugoslavi. Il resto è costituito dalla produzione su disegno per i clienti che si rivolgono direttamente qui, al nostro punto di vendita. Abbiamo una gamma di prodotti per arredamento abbastanza ampia, che rinnoviamo ogni 2- 3 anni”. E intanto Andrei indica alcuni candelabri e altri oggetti disegnati da famosi architetti sloveni e tedeschi. “E lavoriamo anche su disegno. Spesso vado io stesso all’estero per promuovere l’attività della cooperativa, e dedico pure molto tempo allo sviluppo di nuovi sbocchi per i nostri prodotti. È soprattutto in Austria e in Germania che la gente apprezza il nostro ferro battuto e la lavorazione manuale. In Italia? Anni fa parecchia della nostra produzione prendeva quella strada, ma oggi i bassi costi della vostra lavorazione meccanica ci hanno tolto quel mercato”.
Con piglio manageriale e con evidente amore per questa attività, Markeli ci accompagna attraverso le varie stazioni di lavoro. Al di là dell’ultima finestra del locale, si scorge il torrente che ha dato, nei secoli, il contributo essenziale a questa piccola patria del ferro.
17 taverne e 2000 abitanti
Attraversata la strada che si allarga un poco a formare una piazzetta, entriamo nel piccolo museo del paese. Documenti medievali, patenti di sfruttamento, fotografie d’epoca, strumenti e manufatti prodotti nel succedersi dei decenni, il plastico del villaggio nella sua massima estensione. Veniamo a sapere che negli anni tra le due guerre mondiali Kropa aveva 17 taverne e 11 negozi per circa 2000 abitanti. Ora l’intera valle non conta più di 1500 persone. Il bosco si estende ormai fin quasi all’abitato. Eppure il legame con la terra è rimasto: quasi tutti gli operai della cooperativa, ad esempio, coltivano per proprio conto i loro appezzamenti.
Alcuni infine, come Gartner Franc, hanno conservato un’attività artistica estremamente singolare. Il ferro battuto è modellato e assemblato al legno scolpito e a corna di cervo. Il risultato sono lampadari, candelabri, tavoli e altri oggetti per arredamento: pezzi unici, belli e raffinati che l’artista vende nei Paesi di lingua tedesca.
Usciamo. Siamo di nuovo sulla piccola piazza del villaggio. Il sole basso illumina solo la cima degli alberi del bosco che scende fin dietro le case, l’aria si è rinfrescata. Più in là, all’altezza del ponte, a ricordo della guerra di liberazione durante l’ultimo conflitto mondiale, si erge un monumento in pietra e ovviamente, in ferro battuto. Lo stile è moderno e contrasta decisamente con l’aspetto “alpino” delle case intorno, ma l’impressione che se ne ricava è di semplice austerità.
Pochi fronzoli per questa gente di montagna che, per forza di cose, ha sempre dovuto badare alle cose pratiche. Certamente dev’essere stato duro conservare le proprie tradizioni attraverso i secoli, ma altre nuove sfide si approssimano all’orizzonte. Ben difficilmente l’abbattimento delle barriere doganali all’interno della Comunità Europea nel 1992 non avrà ripercussioni anche su questo tipo di attività. Tuttavia i lavoratori di Kropa si dichiarano fiduciosi di superare anche questa difficoltà. I loro prodotti sono ormai conosciuti un po’ dappertutto e la loro maestria è indiscutibile. E poi, il loro modo di rapportarsi al passato non si limita a raccogliere ricordi: piuttosto, questi montanari sloveni cercano di vivere il presente e i suoi continui cambiamenti attingendo all’esperienza collettiva accumulata nei secoli.
Chiodi per le scarpe
A Kropa, per molti secoli la produzione dei chiodi fu secondaria rispetto a quella destinata all’industria bellica e pesante. Già ne11759, tuttavia, l’Ordine dei produttori regolò in una serie standard gli oltre cento diversi tipi di chiodi, differenti tra loro per lunghezza e dimensioni. Una sola delle forge utilizzate per la fabbricazione dei chiodi si è conservata fino ai giorni nostri. È quella di Vice Vigenc, situata sul fiume a circa 200 metri dal museo. La ruota ad acqua gira ancora muovendo i mantici; all’interno del laboratorio ci sono tre crogioli circolari, ciascuno con sei incudini in pietra per la forgiatura dei chiodi.
Il commercio dei chiodi si sviluppò principalmente con i paesi del Sud. Carovane di cavalli da trasporto, carichi di casse piatte piene di chiodi, attraversavano le colline dirette verso l’Adriatico. Una seconda via commerciale, inoltre, seguiva il corso della Sava e continuava all’interno dei Balcani. Il culmine della produzione di chiodi si verificò verso la metà del secolo scorso, fino all’epoca in cui cominciò a farsi strada la lavorazione meccanizzata di questo prodotto. Allora i mastri ferrai di Kropa si specializzarono in chiodi per calzatura. Fino al 1918 la committenza fu rappresentata, come abbiamo già detto, dall’esercito austro-ungarico, sostituita poi, fino al 1950, da quello jugoslavo. La produzione di chiodi si interruppe negli anni successivi alla seconda guerra mondiale: la comparsa della suola di gomma indusse gli artigiani sloveni ad orientarsi verso un prodotto diverso.