Riscaldamento globale e scioglimento del permafrost nelle Alpi

Al geologo Luca Paro, funzionario in Arpa Piemonte per la raccolta e analisi dati sul dissesto, chiediamo quali sono state le conseguenze del riscaldamento globale sui territori di alta montagna.

Lei lavora per ARPA Piemonte, che cosa fa in particolare?

Lavoro in un settore che si chiama studi e monitoraggi geologici, si occupa di dissesto idrogeologico e in particolare della instabilità dei versanti. Su questo filone, da circa dieci anni, ci occupiamo anche di monitoraggio del permafrost, sul riscaldamento in alta quota e sulle conseguenze che produce sul territorio.

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Cos’è il permafrost?

Per permafrost si intende un qualunque geo-materiale, come il detrito, il terreno, la roccia o il suolo che si trova a temperatura di 0° o inferiore, per almeno due anni consecutivi. Viene definito solo su base termica, non sulla base della presenza di ghiaccio, che può essere presente ma può anche non esserci. Talvolta può contenere anche acqua allo stato liquido, perché in alcune condizioni particolari ha un contenuto in sali così alto da avere un punto di congelamento inferiore agli 0°.

Lo scioglimento del permafrost è un fenomeno recente?

Diciamo che ci si è resi conto di ciò da relativamente poco tempo. La comunità scientifica si occupava di permafrost soprattutto in aree circumpolari laddove, ad esempio, c’era un grande sfruttamento petrolifero, quindi in Alaska e Siberia, e dove le tematiche connesse alla degradazione erano maggiormente legate all’estrazione di combustibili fossili.

Quando questi aspetti hanno cominciato a interessare e a coinvolgere le aree montuose, che nelle Alpi sono anche densamente popolate, l’interesse per il permafrost è diventato via via sempre più diffuso.

È nell’agenda da circa una quindicina d’anni ed è diventato un elemento di sempre maggior considerazione sia per gli amministratori locali sia per la comunità scientifica.

Da quanti anni studiate questo fenomeno?

Dal 2006 ARPA Piemonte ha cominciato a occuparsi di questo elemento che fa parte della criosfera. Abbiamo cominciato con l’aggiornare la banca dati del territorio piemontese che era piuttosto lacunosa. In precedenza nessuno aveva fatto studi a livello regionale se non in maniera sporadica. Abbiamo quindi iniziato a stabilire dei modelli geo-morfologici e successivamente abbiamo costruito una rete di osservazione in profondità nella roccia. Oggi siamo arrivati ad avere un quadro regionale abbastanza definito.

Perché lo state studiando?

Perché il permafrost è uno degli indicatori del cambiamento climatico. È la parte di superficie della crosta terrestre più a contatto con tutti i fenomeni che avvengono nell’atmosfera. La sua distribuzione è tipica delle aree circumpolari e quindi delle grandi aree continentali dell’emisfero settentrionale, dove copre quasi il 25% delle terre emerse, ma è presente anche nei territori di alta quota alle medie latitudini, come le Alpi europee, e quindi anche in Piemonte.

Perché la degradazione del permafrost, per la fusione del ghiaccio in esso contenuto, è fonte di instabilità dei versanti e perché modifica il circuito idrogeologico con ripercussioni sul territorio. Oggi questi effetti si avvertono laddove il permafrost è più instabile, quindi alle quote medio alte, dai 2500 m di quota in su.

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Questo vuol dire che tutto l’arco alpino è interessato al fenomeno.

Assolutamente sì. Nell’ambito dello studio europeo PermaNet, che si è sviluppato tra il 2008 e il 2011, ARPA era partner di questo progetto. Abbiamo collaborato con partner francesi, tedeschi, austriaci, svizzeri e di altre regioni italiane, in tutto l’arco alpino, per mettere insieme le conoscenze e la rete di strumenti e per capire cosa succedeva. Ci siamo chiaramente resi conto che, a livello territoriale, coinvolge tutta la regione alpina e che ci sono ampi territori, a sud delle Alpi, che sono maggiormente soggetti agli effetti dello scioglimento del permafrost.

Quali sono i contatti che avete con le altre regioni italiane e con gli altri Paesi dell’arco alpino? Come sono strutturati questi contatti?

Noi collaboriamo strettamente con le regioni confinanti, in particolare con la Valle d’Aosta. L’ARPA Valle d’Aosta ha cominciato a occuparsi di questa tematica anche prima di noi e con loro abbiamo un proficuo scambio di esperienze di lavoro.

Nell’ambito del progetto PermaNet abbiamo creato una rete di collaborazioni per cui i dati vengono condivisi su una piattaforma di scambio internazionale. Inoltre abbiamo collaborazioni occasionali che si instaurano per i nuovi progetti europei, che finanziano progetti specifici transfrontalieri tra Stati confinanti o Stati europei. Possiamo dire che ci sono collaborazioni più strette con i territori di confine e saltuari, ma più intensi, su progetti specifici internazionali in base ai finanziamenti della Comunità Europea.

Quanto è vasta la superficie delle aree interessate a questo fenomeno?

La stima fatta per il Piemonte è circa del 10%. È un territorio di parecchie migliaia di chilometri quadrati perché coinvolge i territori tra i 2500 e i 3500 metri di quota. Però il problema non sono solo le superfici ma i volumi, perché ovviamente dobbiamo pensare che non è solo la superficie reale che dobbiamo quantificare ma piuttosto i volumi di roccia o di detrito potenzialmente coinvolti in quelli che sono gli effetti del cambiamento climatico. Come ad esempio il fenomeno gravitativo del 2006/2007 sulla cresta del Rocciamelone che si è verificato a 3200 m di quota.

In quale versante?

La cresta sud che parte proprio dalla cima e arriva al Ca’ d’Asti a 2850 m di quota. A 3200 m, nella porzione intermedia, si è mossa una bella fetta di alcune decine, forse centinaia, di migliaia di metri cubi di materiale nell’inverno tra il 2006 e il 2007 ed è precipitata a valle, per fortuna senza grosse conseguenze per l’abitato sottostante di Novalesa.

Da allora ARPA Piemonte si è occupata sia del monitoraggio superficiale sia geotecnico, con strumenti per osservare i movimenti della cresta e anche in profondità, con termometri, per capire quali effetti stava producendo il riscaldamento della roccia. Perché l’ipotesi era che in qualche modo la degradazione del permafrost a quelle quote avesse un ruolo scatenante nei confronti di questo fenomeno gravitativo.

Nell’ambito del progetto “PrévRisk”, un progetto transfrontaliero tra Italia e Francia, che ci ha permesso di mettere insieme sia partner che finanze, a 3200 m di quota abbiamo realizzato un pozzo profondo dove abbiamo inserito 30 sensori di temperatura e 30 inclinometri, che in contemporanea misurano inclinazione e temperatura della massa rocciosa. Questi strumenti possono inviare in automatico un allarme per indicare che qualcosa si sta muovendo.

Al momento è in fase di sperimentazione e stiamo verificando, in base ai dati che arrivano, il modello che possiamo applicare anche ai fini predittivi, non solo per dare l’allerta quando qualcosa si muove ma anche per valutare, in base al riscaldamento atmosferico, se nella roccia sta succedendo qualcosa sia a livello termico che deformativo.

È il nostro sito più in alta quota ed è una sfida tuttora, sia per i costruttori che per noi che seguiamo sia la parte strumentale che quella gestionale. Abbiamo contatti con le amministrazioni comunali che si devono occupare della gestione del rischio e stiamo coordinando tutte le parti per cercare di creare al meglio un sistema che funzioni. È un primo modello di allertamento sul cambiamento climatico e sulle conseguenze nel territorio di alta quota.

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Perché, sebbene tutto ciò avvenga in alta quota, le conseguenze possono essere avvertite in modo grave anche a fondovalle.

Esatto, nonostante il permafrost sia un elemento distante da noi, le conseguenze dei fenomeni che si verificano anche a 3000 m si ripercuotono molto spesso sulle aree alpine densamente abitate, sulle vie di comunicazione, sulle strutture turistiche e, infine, anche sugli abitati tradizionali storici.

Di recente, si è verificato un evento, in Svizzera vicino al confine italiano, nel quale si sono mobilizzati 4 milioni di metri cubi di roccia che, partendo dai 3000 m di quota, si sono poi evoluti in un fenomeno complesso localizzato lungo l’alveo di un torrente e che ha coinvolto abitati e strade. Sono fenomeni che sempre più ci fanno pensare che è bene stare attenti a ciò che succede in alta quota.

Quindi anche i villaggi alpini che non sono mai stati oggetto di dissesto idrogeologico potrebbero essere interessati da fenomeni di questo genere?

Per le aree di nuova edificazione il problema di dissesto idrogeologico è presente già oggi, ma anche per quelle di più antica edificazione ci potrebbero essere dei rischi causati da queste nuove modificazioni nel panorama del dissesto.

In ogni caso il paesaggio di montagna e in continua evoluzione. Fino a metà del milleottocento i ghiacciai avanzarono obbligando a trasferire a quote più basse villaggi e pascoli. Oggi assistiamo al fenomeno inverso: l’uomo si spinge sempre più a monte, il permafrost si degrada e ci sono situazioni per cui anche villaggi storici posso essere potenzialmente coinvolti.

Dove si trovano in Piemonte le aree più critiche?

In tutte le zone di cresta, gli spartiacque, le zone di confine e tutti i territori dai 2500 metri in su. Poi ovviamente dipende dall’esposizione del versante. Tutto il territorio piemontese, dalle Alpi Marittime alle Lepontine dell’alta Ossola, è interessato da questo fenomeno.

La superficie stimata in questo momento è del 10%. Sono diverse migliaia di chilometri quadrati di area montana. Poi ci sono differenze a seconda dell’esposizione, perché il permafrost è direttamente connesso alla radiazione solare, quindi i versanti sud presentano quote di distribuzione più alte mentre sul versante nord le quote di distribuzione sono più basse.

Dal 2016 ci stiamo inoltre occupando anche della cosiddetta criosfera ipogea, cioè la parte che riguarda lo studio del ghiaccio in grotta nelle Alpi Liguri. I ghiacciai sono ormai spariti da parecchio tempo e tuttavia ghiaccio e anche ghiaccio di ghiacciaio persiste tuttora all’interno di queste cavità e solo adesso sta subendo le trasformazioni e la degradazione che ha subito in superficie la parte esposta al sole. Questi aspetti sono interessanti perché, di nuovo, una componente della criosfera sconosciuta ci aiuta a capire cosa succede in profondità all’acqua che rimane all’interno della roccia.

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Quali sono le azioni che avete intrapreso per gestire questo fenomeno?

Al momento l’attività principale è il monitoraggio. Questo elemento è poco conosciuto e la sua evoluzione è alquanto ritardata rispetto quello che succede nell’atmosfera. È stata installata una rete su tutto l’arco alpino costituita da diverse stazioni. Sono sostanzialmente delle colonne termometriche inserite in pozzi profondi dai 30 ai 100 metri, dalle Alpi Cozie meridionali fino alle Lepontine, e stiamo osservando cosa avviene alle temperature negli ammassi rocciosi. Come dicevo questo è il primo caso di gestione del rischio in alta quota.

Le attività umane hanno un qualche impatto su questi fenomeni o no?

L’attività umana tradizionale, la agro pastorale e la coltura dei boschi, in genere no perché tutto si sviluppa al di sopra del limite bosco e talvolta anche del pascolo. Diciamo che queste attività non hanno un effetto diretto sulla stabilità dei versanti e sulla degradazione del permafrost, piuttosto sono gli impianti turistici, quelli legati agli sport invernali, che possono avere localmente degli effetti molto importanti.

Proprio nell’estate del 2017 abbiamo seguito da vicino un progetto di ampliamento di un comprensorio sciistico che ha costruito a 3050 m di quota una nuova stazione con dei piloni in cemento all’interno della massa rocciosa. Stiamo monitorando l’opera per verificare eventuali effetti sulla massa rocciosa e verificare se la degradazione del permafrost, nell’ammasso roccioso, possa creare instabilità alle infrastrutture.

La presenza di acqua all’interno del permafrost e il suo scioglimento potrebbe garantire, anche in tempo di siccità, la presenza di una notevole riserva d’acqua. Non per sempre ma almeno per qualche anno. È così?

L’aspetto delle acque è ancora meno conosciuto di quello dell’instabilità dei versanti in quota. Proprio in occasione dell’estate siccitosa the 2017 si sono verificati fenomeni insoliti. Alcuni torrenti erano anormalmente ricchi d’acqua quando in realtà non c’erano precipitazioni da mesi e si è pensato proprio a un’alimentazione della degradazione del ghiaccio all’interno del permafrost.

In realtà alcuni studi recenti, svolti preliminarmente nelle Alpi orientali, hanno verificato che l’acqua che viene rilasciata dal permafrost ha un contenuto di metalli pesanti piuttosto elevato che rendono l’acqua non proprio salubre.

Al momento gli effetti sull’ambiente e sull’uomo non sono ancora stati studiati perché nel corso del deflusso l’acqua viene diluita. Probabilmente l’acqua all’interno delle rocce si arricchisce di elementi che poi vengono rilasciati istantaneamente nel momento della fusione. Come ARPA Piemonte inizieremo proprio questo anno a monitorare i terreni che contengono ghiaccio per vedere cosa scaturisce dalle sorgenti.

Nell’immediato futuro cosa vi aspettate? Qual’è la direzione in cui sta procedendo questo fenomeno?

Questo fenomeno è connesso riscaldamento globale e nelle Alpi è particolarmente enfatizzato. Quindi anche le rocce, pur con una certa inerzia, si stanno scaldando e ci aspettiamo che la quota del permafrost continuerà a salire e a degradare a quote sempre più elevate, con conseguente instabilità localizzata e più o meno pronunciata nei diversi settori.

Luca Paro, geologo del Dipartimento Tematico Geologia e Dissesto di Arpa Piemonte, Struttura Semplice Monitoraggi e Studi Geologici.

Funzionario in Arpa Piemonte per la raccolta e l’analisi dati sul dissesto e per l’aggiornamento della banca dati geologica. Ha partecipato al progetto nazionale IFFI per l’inventario dei fenomeni gravitativi del Piemonte e al progetto europeo IMIRILAND in cui si è occupato di analisi di rischio e pericolosità. Dal 2006 ha iniziato lo studio dell’ambiente periglaciale delle Alpi piemontesi. Nel 2008÷2011 è stato project manager per Arpa Piemonte del progetto europeo PermaNet (Permafrost long-term monitoring network) focalizzato sullo studio e monitoraggio del permafrost alpino e nel 2016÷2017 del progetto Italia-Francia “PrévRIskHauteMontagne” inerente i temi dei rischi in alta quota.
PhD n
el 2010 con uno studio sui block stream del Complesso Ultrabasico di Lanzo (Torino). Ha partecipato alla 26a e 28a Spedizione in Antartide nell’ambito del progetto 2009/A2.12 – Permafrost e Cambiamento Climatico (Resp. M. Guglielmin) in collaborazione con il British Antarctic Survey.

LINK
https://www.arpa.piemonte.gov.it/approfondimenti/temi-ambientali/geologia-e-dissesto/progetti-geologia-e-dissesto/progetto-europeo-201cprevriskhautemontagne201d
http://relazione.ambiente.piemonte.gov.it/2017/it/clima/impatti/permafrost
https://www.youtube.com/watch?v=QkW9STV3mUM&feature=youtu.be

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