Paneveggio

Sopra la foresta incantataalp02.12

Paneveggio Pale di San Martino

 

ALP n° 140

 

December 1996

Text  –  pages 36 – 45

 

 

 

 

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C’è un luogo molto antico dove due storie racchiuse nella memoria delle rocce si sono incontrate. Circa trecento milioni di anni fa una forza immane si aprì il cammino tra le viscere della terra e causò una delle più grandi eruzioni di magma e gas che la storia del pianeta ricordi. Nei cento milioni di anni successivi con un paziente lavoro di costruzione una imponente barriera corallina ci ha regalato uno dei più bei paesaggi dolomitici che oggi si possa ammirare. Questo luogo che trova le sue origini in qualche lontano luogo dei tropici si trova ora in Trentino e poiché è inequivocabilmente bello e prezioso il suo patrimonio naturale è stato protetto con l’istituzione di un parco: il Parco regionale Paneveggio Pale di San Martino. La grande eruzione a “nube ardente”, come viene definita dai geologi, è diventata la bellissima catena dei Lagorai le cui rocce di porfido rosso, bruno e talvolta persino verde, sono punteggiate da una quarantina di laghetti alpini di origine glaciale. Di fronte a essa si innalzano al cielo una serie di pareti verticali che alpinisti e sciatori conoscono bene e che all’alba e al tramonto si trasformano in una poesia tinta di rosa: il Cimon della Pala, la Pala di San Martino, il Sass Maor. In questa area di congiunzione tra diverse formazioni geologiche e ricca di ambienti naturali molto diversi tra loro si sono create le migliori condizioni per ospitare una grande varietà di specie viventi. I centonovanta chilometri quadrati su cui si estende il parco si possono suddividere in tre aree omogenee. Paneveggio dove il grande bosco demaniale è padrone incontrastato dei declivi che scendono dalle cime dei Lagorai; Pale di San Martino in cui domina la roccia dolomitica e si presentano i territori più aspri e selvaggi; Vanoi sulle cui forme ampie e dolci si distendono boschi e alpeggi.

La necessità di tutelare questo splendido territorio ha portato alla creazione del parco regionale che compirà trent’anni il prossimo anno. Trenta anni, un tempo sufficiente a vedere cambiare mode e costumi. Quanto basta per fare un primo bilancio rispettando i tempi lenti della natura.

Oggi all’interno dei suoi confini vivono oltre mille camosci, seicentocinquanta caprioli, circa duecentocinquanta cervi, quasi duecento colonie di marmotte e poi la lepre comune e quella variabile, il gallo cedrone e quello forcello, la pernice bianca, il francolino, la coturnice e infine ben otto coppie di aquila reale. L’elenco degli animali sarebbe ovviamente molto più lungo a comprendere piccoli e grandi volatili, piccoli e grandi predatori. All’apice della piramide ecologica ritroviamo la lince che è tornata a vagare volentieri per questi boschi. Tutto ciò partendo da una situazione iniziale che non vedeva la presenza di alcun cervo, in cui vi erano solo centosessanta camosci e trecentotrenta caprioli, l’aquila reale era assente e le altre specie non avevano una popolazione florida. “Non è ancora una situazione ottimale – sostiene Ettore Sartori direttore del parco – ma i dati sono chiaramente in controtendenza rispetto al resto dell’arco alpino che non gode di tutela”. La vita degli animali è molto dura. “Un parco regionale del resto – continua Sartori – non è tutelato come un parco nazionale ed è quindi permesso un certo prelievo venatorio, poi ci sono gli impianti sciistici che creano notevoli problemi in alcune aree e infine abbiamo constatato che anche alcune discipline considerate “eco-compatibili” come lo scialpinismo costituiscono un serio problema per alcune specie di animali. Il fatto più grave è che tutte queste cause di stress fisiologico si aggiungono a quello ben più terribile costituito dal gelo invernale e dalle abbondanti nevicate”. Quando ci godiamo lo spettacolo che la coltre di neve aggiunge al fascino di queste vette dolomitiche è difficile rammentare che gli abitanti del bosco si “godranno” anche il gelo delle lunghe notti e lo sferzare della tormenta. Di neve qui ne cade molta: oltre due metri a Paneveggio con tre mesi e mezzo di innevamento, oltre quattro metri e mezzo al Passo Rolle con quasi duecento giorni di copertura del manto nevoso. Gli sciatori che si divertono sulle piste dell’Alpe Lusia, alla Baita Segantini o sulla Tognola ne sono ben contenti ma il rigore invernale è il più terribile nemico per tutti gli animali.

Ognuno di essi adotta una sua strategia per affrontare i rigori della cattiva stagione. Alcuni cadono in letargo come il riccio, il ghiro e la marmotta. A settembre-ottobre queste ultime iniziano il rituale che le vede prepararsi per il lungo inverno: chiusa l’apertura della complessa e articolata tana si accoccolano su se stesse e, tenendosi strette le une alle altre, cadono in un sonno profondo che durerà circa sei mesi” Anche il tasso trascorre nella tana buona parte dell’inverno e, pur senza cadere in un vero e proprio letargo, dorme per lunghi periodi abbassando notevolmente il suo metabolismo. Per altri abitanti del bosco come lo scoiattolo l’inverno è il periodo di consumo delle “scorte” preparate durante la bella stagione ed è grazie alle sue dimenticanze che molte essenze si rinnovano con maggiore facilità.

La timida lepre variabile, che si veste di un candido mantello, si accontenta di giovani cortecce, radici, muschi e licheni. L’ermellino, anche lui in livrea invernale, attende le arvicole, sue prede preferite, appostato in prossimità delle loro tane. La volpe, animale timido e prevalentemente notturno abbandona la sua tana in cerca di cibo anche in pieno giorno. Alla lotta per la sopravvivenza partecipano anche predatori del cielo. L’astore, lo sparviere, l’aquila reale, il gheppio, il gufo reale, la civetta e l’allocco sono i più comuni. Al visitatore occasionale però raramente capiterà di osservare gli attimi più drammatici in cui si decide chi vive e chi no. Sarà tuttavia meno difficile avvistare abitanti un po’ più grandi come il cervo, il camoscio, il capriolo. I cervi, di solito guardinghi e timidi, durante l’inverno non restano concentrati nella foresta o nel parco ma scendono più a valle per cercare terreni più propizi e accessibili. Sfiniti dal periodo autunnale degli “amori”, dove la lotta per conquistare l’harem di femmine si protrae sino all’estremo delle forze, affrontano ognuno per proprio conto i rigori dell’inverno. Agli inizi della primavera i maschi perderanno il palco di corna e si ritireranno nel folto della foresta. Con il loro mantello invernale grigio-bruno i caprioli scendono a valle o restano nascosti lungo il margine del bosco e delle pianure agricole e devono accontentarsi anche loro delle cime degli alberelli, di arbusti, cortecce e cespugli. Questi piccoli ma adattabili ungulati si dimostrano più attivi proprio in inverno perché la ricerca di cibo è più difficile. Anche il camoscio, signore delle praterie alpine oltre i duemilacinquecento metri di altitudine, deve fare i conti con i rigori invernali. Le femmine e i maschi immaturi che d’estate frequentano le praterie d’altitudine scendono nel bosco. I maschi adulti che hanno un comportamento gregario diventano più solitari ed erratici. In queste condizioni climatiche il dispendio di energie per alimentarsi non è minimamente compensato dalla qualità e dalla quantità del cibo trovato. Lo scopo principale è mantenere in efficienza l’attività di ruminazione. Una eventuale pausa di alcuni giorni richiede un tempo altrettanto lungo perché il cibo nuovamente introdotto possa essere realmente digerito e utilizzato per la sopravvivenza. La perdita di peso corporeo è rilevante per tutti questi ungulati e in taluni casi arriva fino al quaranta per cento. Le perdite dei piccoli durante il primo anno sono elevatissime: solo uno su tre si salverà.

Una delle caratteristiche di pregio del patrimonio faunistico del parco è la presenza di numerosi tetraonidi: il francolino di monte, la pernice bianca, il fagiano di monte e il gallo cedrone. Sono animali rustici che vivono di gemme, foglie, piccoli frutti e rametti ma d’inverno devono accontentarsi di aghi di conifere e cortecce. Tranne il francolino di monte tendono ad avere, per la stagione invernale, un comportamento gregario per massimizzare le probabilità di sopravvivenza e non usano altro riparo che il nascondersi sotto la neve.

Da qualche anno è ricomparso un grande abitatore di foreste: la lince. Avvistare una lince è più difficile che vincere alla lotteria nazionale ma non è impossibile osservarne le tracce nella neve o persino i resti delle sue predazioni. I più fortunati potrebbero ascoltare salita scialpinistica gli urli miagolanti dei maschi che tra febbraio e aprile si sfidano per il possesso della femmina.

Quando a queste normali attività di sopravvivenza si aggiunge la presenza dell’uomo lo stress per gli animali diventa estremo. “Per quest’inverno – spiega Sartori Sopra la foresta incantata – abbiamo predisposto il piano del parco con l’indicazione di una serie di percorsi di scialpinismo e per i percorsi classici daremo una serie di indicazioni sulle modalità di comportamento: non divieti ma esortazioni. Gli animali in inverno hanno problemi di sopravvivenza molto più alti, uno stress notevole; quando sono in allarme e devono scappare consumano molta più energia. Le ultime ricerche fatte hanno stabilito che, nonostante un certo numero di uccelli morti per l’impatto contro le funi degli impianti di risalita, il danno maggiore non proviene dal turismo tecnologico, dai turisti che usano gli impianti ma che non escono mai dai tracciati delle piste. Gli animali si sono super adattati. Stanno anche a soli venti metri dalle piste perché sanno che tanto nessuno si avvicina a molestarli. Ciò non significa che si devono fare altri impianti però occorre demistificare la eco-compatibilità di un certo tipo di turismo. Quando gli sciatori sono numerosi e si addentrano capillarmente nel territorio i danni sono maggiori.

Fino ad ora si è creduto che il danno maggiore del fuori pista fosse quello arrecato alle cime delle pianticelle che spuntano dalla neve; in realtà è la fauna a subire i danni maggiori perché non è più tranquilla in nessun territorio, Facciamo un esempio concreto: nelle foreste demaniali dove là caccia è vietata, ci si sarebbe dovuto aspettare un aumento dei tetraonidi e invece abbiamo una situazione stagnante se non in calo. Perché è aumentato il fuoripista, In tarda stagione abbiamo le covate che stanno per schiudersi e gli individui che sono sopravvissuti all’inverno sono molto provati, L’abbandono di una covata è un danno gravissimo. In estate, poi, ci sarà la selezione da parte dei predatori naturali ma quella certamente non mi preoccupa. In provincia di Trento siamo ancora in presenza di numeri confortanti di tetraonidi rispetto al calo impressionante in tutto l’ arco alpino, Non per questo possiamo dire di essere a posto, potremmo tuttavia tentare trasferimenti in altre zone meno fortunate”.

Questa situazione pone un grande dilemma che coinvolge tutti: qual è la funzione di un parco? Sartori prova a dare la sua risposta: “A mio parere un parco non è altro che una buona gestione del territorio che dovrebbe far capire come si potrebbe lavorare anche sulle zone non tutelate. A forza di sollecitare i visitatori ad addentrarsi nei luoghi più belli si è arrivati al paradosso che le zone meglio tutelate sono quelle fuori dai suoi confini. Qui vengono migliaia di persone ogni inverno perché sono luoghi conosciuti sin dall’inizio dell’ottocento e perché c’è il parco a valorizzarli, ma la zona meglio conservata e più interessante dal punto di vista naturalistico si trova in una valle fuori dal parco, lo sono convinto che se non si riuscirà a diluire su un periodo molto più lungo, anche regolamentando, si dovrà arrivare a stabilire dei percorsi precisi, vietare di uscire dai sentieri e fare un vero numero chiuso, È triste ma a mali estremi, estremi rimedi”.

Una soluzione potrebbe essere rappresentata dalla rinuncia ai sentieri a mezza costa lasciando in efficienza solo quelli che salgono alle forcelle, Un’altra proposta un po’ provocatoria è quella, per usare le parole di Sartori, di “utilizzare il parco come centro di cultura e di usare i centri visita (nel parco ce ne sono quattro) come filtro per promuovere un nuovo approccio alla natura e trattenere la gente a fondovalle piuttosto che invogliarla a intasare i sentieri”. Potrebbe non essere la soluzione ideale, ma gli animali ne trarrebbero certamente un gran beneficio.