Abbiamo chiesto a Sabina Airoldi, una dei massimi esperti europei di cetacei, di illustrarci lo stato dell’arte sullo studio di questi animali nel Mar Mediterraneo e dei problemi ambientali che oggi il mare sta affrontando.
Laureata in Scienze Naturali, ha iniziato a condurre ricerche sui cetacei nel 1987, anno in cui ha iniziato a lavorare per Tethys di cui è anche membro del Consiglio Direttivo. Attualmente riveste il ruolo di Direttore del Cetacean Sanctuary Research (biografia completa in fondo all’intervista).
Perché ha dedicato gran parte della sua vita allo studio dei cetacei, qual’è stata la ragione che l’ha motivata in questa particolare ricerca?
In realtà sono arrivata alle balene facendo un salto dimensionale ragni-balene solo dopo la laurea in Scienze Naturali. Perché il mio background era assolutamente terrestre. Io cresco in Lombardia, trascorro gran parte del mio tempo da bambina in giardino ad osservare questi straordinari animali e mi innamoro perdutamente dei ragni, come anche di tutti gli animali e di tutta la natura.
Quindi arrivo all’università. Il primo anno, appena iscritta mi resi conto che all’Università di Milano nessuno lavorava sui ragni ma scoprii che al museo di storia naturale a Milano, c’era il Dott. Pesarini che si occupava di insetti e dei ragni.
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A me non parve vero e andai subito a chiedere e a lui non è parve vero di mettermi in tesi già al primo anno università. Mi ero appena iscritta e dopo pochi mesi già iniziavo a fare la mia tesi di laurea sui ragni. È stato come un amore a prima vista.
Però purtroppo in Italia per studiare questi animali, li studiano soprattutto in ecologia, era necessario ucciderli. Quindi dopo aver fatto delle ‘marmellate’ di ragni, poveri, per esigenze della tesi, mi sono resa conto che non poteva essere quella la mia strada.
Su questo percorso ho incontrato Giuseppe Notarbartolo di Sciara, che già da 10 anni conduceva ricerche e studi all’estero, negli Stati Uniti, sui cetacei e sulle mobule, le mante. A un certo punto è tornato in Italia e nel 1986 ha fondato Tethys, una associazione, inizialmente di supporto alla rivista AQUA, sorella della rivista Airone. L’anno dopo però questa fondazione si trasformò in una associazione di ricerca, un istituto di ricerca privato che intendeva fare vera e propria ricerca scientifica. A quel punto sono stata imbarcata in questa avventura, perché possiamo veramente chiamarla avventura, e dopo 31 anni Tethys è oggi uno degli istituti di ricerca più importanti, a livello internazionale, per l’intero Mediterraneo. Abbiamo oltre 500 pubblicazioni scientifiche sui cetacei e devo dire che sono poche le università e le varie organizzazioni governative di ricerca che possono vantare tante pubblicazioni proprio sui cetacei del Mediterraneo. Siamo un referente importante proprio per questi animali, sia in ambito di ricerca sia in ambito di conservazione. Questo è stato il mio salto. È stato un amore nato in itinere, in realtà io sono innamorata della natura, sono innamorata dell’ambiente, non dico che ragni e cetacei siano la stessa cosa, però quello che veramente è la mia passione iniziale è l’amore per la natura.
Qual’è il suo ruolo in Tethys?
Oltre a essere membro del consiglio direttivo, in questo momento dirigo uno dei più vecchi e longevi progetti di ricerca di Tehys che si svolge nel Mar Ligure, che ha un nome strano. Si chiama Cetaceans Sanctuary Research in cui la parola Sanctuary indica che la ricerca si effettua all’interno del Santuario Pelagos.
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Sostanzialmente noi partiamo da Porto Sole, Sanremo. Dal 1988 abbiamo iniziato a condurre i primi monitoraggi con la nostra imbarcazione. Quindi oltre trent’anni fa. Pattugliando tutti i mari italiani, nel ’87 e nel ’88, quando arrivammo nel ponente ligure, diciamo nel bacino corso ligure provenzale, quel tratto di mare che sta fra le coste della Liguria di ponente e la Corsica, ci rendemmo conto che quell’area pullulava di cetacei. Qui, rispetto a tutti gli altri mari italiani, registrammo immediatamente una concentrazione significativamente superiore. In seguito ci rendemmo conto che è una delle più elevate dell’intero Mediterraneo.
Di questo straordinario patrimonio non c’era traccia in letteratura o quasi, perché all’inizio e metà degli anni 80 gli unici dati disponibili sui cetacei italiani erano relativi semplicemente agli spiaggiamenti.
Nessuno era andato in mare a studiarli. Non si sapeva quante popolazioni c’erano e quali erano le specie, come erano distribuite. Quindi posso dire che siamo stati dei veri e propri pionieri della cetologia italiana e per certi versi anche mediterranea, perché solo i francesi hanno iniziato più o meno negli stessi anni.
A quel punto, resici conto di questo straordinario patrimonio, abbiamo ovviamente pensato di poterlo conservare e quindi nel 1990 e ’91 abbiamo presentato a Bruxelles, con il supporto del principe Ranieri di Monaco e del Rotary Club di Milano, una proposta per proteggere questa area con il progetto Pelagos.
Dopo 10 anni, nel 1999, eravamo con le lacrime agli occhi a Roma a vedere i rappresentanti dei tre governi di Italia, Francia e Principato di Monaco, firmare l’accordo per l’istituzione del Santuario Pelagos.
Fu una grandissima conquista. Dal ’88 non abbiamo mai smesso di fare monitoraggio in questa area. Da metà maggio a fine settembre noi siamo in mare a condurre le ricerche su tutte le popolazioni di cetacei in questa porzione del santuario Pelagos, che e la porzione occidentale, e tanto per dare dei numeri che rendono meglio l’idea è come se, come sforzo, avessimo fatto circa sei volte il giro del globo lungo l’equatore. Abbiamo viaggiato tanto e siamo rimasti in mare per l’equivalente di circa cinque anni e quindi migliaia di giorni in mare e sei volte il giro del mondo. Con oltre mille avvistamenti di balenottera, non so quante migliaia di stenelle. Veramente abbiamo portato a casa un bottino importante, e con grandissimo orgoglio voglio dire che questa è la serie storica più lunga dell’intero Mediterraneo.
Durante tutti questi anni di monitoraggio siete riusciti ad raccogliere dati che vi abbiano permesso di studiare l’evoluzione avvenuta in questo ecosistema?
Sarebbe bello che fosse così, ma esattamente così non è stato.
Nel senso. È proprio questo un po’ il gap che manca. In tutta questa zona, di questa parte dell’ecosistema. Mancano alcuni studi precisi per quello che riguarda ad esempio le correnti, le popolazioni di invertebrati come il famoso krill del Mediterraneo, quello che attira centinaia e centinaia di balenottere comuni che vivono nel Mediterraneo. L’animale più grande del mondo, secondo solo alla balenottera azzurra. Il krill ne attira in questa zona in quantità cospicua proprio nei mesi estivi
Si sa pochissimo. Quello che un po’ manca sono dei dati che possono validare tutti quelli che sono i modelli predittivi che vengono fatti per la presenza delle diverse tipologie di prede dei nostri cetacei, che si fanno attraverso gli studi dei dati presi da satellite.
Attraverso i rilevamenti satellitari raccogliamo i dati relativi alla salinità, alla temperatura superficiale dell’acqua e ad altri parametri, li sovrapponiamo alla distribuzione dei nostri cetacei e cerchiamo in questo modo di produrre, insieme ovviamente a colleghi di altri istituti oltre a Tethys, dei modelli predittivi che possano dare delle indicazioni sull’andamento della parte ecosistemica e ovviamente anche della distribuzione dei cetacei. Questa è una parte del lavoro.
Nell’altra parte cerchiamo di avvalerci di tutti i dati che vengono raccolti da altri istituti e che riguardano l’ecotossicologia, tutto ciò che impatta su questi animali, che possono essere le collisioni, il problema del traffico marittimo, l’inquinamento acustico, l’inquinamento chimico. Quindi diciamo che, mettendo insieme tantissimi tasselli di questo enorme puzzle, abbiamo nel tempo cercato di ricostruire un quadro.
Confesso che, soprattutto in questo momento, in cui necessariamente i cambiamenti climatici sono avvertibili quasi quotidianamente, gli studi specifici della parte eco-sistemica della colonna d’acqua del mare sarebbero importantissimi per avere una chiave di comprensione su che cosa sta succedendo.
Purtroppo in mare, ancor più che a terra, un minimo cambiamento di temperature sconvolge totalmente gli equilibri. Sposta le correnti e con esse sposta il fitoplancton e lo zooplancton. Molto più che a terra un piccolissimo cambiamento, in termini oceanografici, può veramente variare gli equilibri dell’intero ecosistema. Per questa ragione, ai modelli predittivi che sono ormai i più utilizzati sarebbe veramente importante affiancare una registrazione di dati reali, proprio per ottenere un continuo check di validazione.
Avete però una lunghissima serie storica di rilevamenti sui cetacei. Quali sono i trend relativi alla loro presenza nel Santuario Pelagos?
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Avere disponibile una serie storica di quasi trent’anni ci ha fortunatamente consentito di poter determinare i cosiddetti trend di popolazione, ovvero capire se le popolazioni delle otto diverse specie che sono presenti nel Santuario Pelagos sono in aumento o in diminuzione. Intanto c’è da dire, e questo è molto importante, a livello di bacino mediterraneo tutte le popolazioni, tutte le specie di cetacei sono in declino. Alcune di più, altre di meno.
Facendo però un focus sul nostro Santuario Pelagos che è una zona particolarmente ricca, particolarmente produttiva, quindi dove si concentrano tutte le specie soprattutto nel periodo estivo, rileviamo che al suo interno alcune specie sono aumentate, e altre diminuite.
Chi è aumentato: è aumentata sicuramente la stenella striata che un piccolo delfinide. È la specie più abbondante nel Santuario Pelagos ed è anche la più abbondante dell’intero Mediterraneo. Tanto per avere un’idea: con i survey aerei, finanziati anche dal nostro Ministero dell’Ambiente, abbiamo stimato un numero di 38.000 individui all’interno del Santuario in estate.
Per quanto riguarda il capodoglio rileviamo che dal 2007 c’è stato un aumento. Negli ultimi 10-11 anni c’è stato un aumento significativo, raggiungendo un numero di circa 100 o poco più individui. Nella nostra area di studio sono aumentati anche gli zifi. Lo zifio è uno strano animale che come il capodoglio è campione di apnea. Sono animali che mangiano calamari che vivono tra i 600 e i 1200m di profondità. Scompaiono ai nostri occhi, restano sott’acqua 40 – 50 minuti, poco più di un’ora, mangiano questi calamari e poi risalgono. In questi trent’anni queste tre specie sono aumentate di numero, sia come abbondanza relativa sia assoluta.
In diminuzione troviamo invece la balenottera comune, che è effettivamente diminuita in modo abbastanza importante negli ultimi anni anche se in questo caso si parla più fluttuazioni distribuzionali, nel senso che si è visto dai primi dalla fine degli anni 90 c’è stato questo trend in diminuzione e ormai sono poche centinaia gli animali che vengono registrati all’interno del Santuario in estate.
Ancora più grave è la quasi scomparsa del Grampo, un piccolo delfinide di 3 – 3,5m di cui ormai abbiamo un solo avvistamento negli ultimi quattro anni. Non solo da parte di Tethys ma anche dalle imbarcazioni di whale watching, dai pescatori; insomma pare essere scomparso.
Naturalmente questo non significa che gli animali muoiono, questo significa però che si spostano. Parliamo sempre di fluttuazioni distribuzionali. Il problema è capire due cose importanti: perché e dove sono andati.
Quello che ora stiamo studiando e stiamo cercando proprio di capire è quanto e come gli impatti di origine antropica, quindi di origine umana o che provengono dalle attività umane, possano in qualche modo influire su questi spostamenti di animali e quanto invece la presenza delle prede. Quali motivazioni più strettamente oceanografiche o di parte biotica dell’ecosistema, influiscono sugli spostamenti di questi animali.
Di questi animali noi siamo in grado di riconoscere ogni individuo, fotografando dei particolari caratteri di ogni singolo animale. È di pochi giorni fa la notizia che, confrontando i cataloghi di grandi di Grampi “scomparsi”, ne abbiamo trovato uno che si chiama “Albatros”. Avvistato nel luglio del 2000, nel 2017 è stato avvistato in Spagna, a sud di Barcellona.
Quindi questi dati ci dicono che, come uso dire io, i cetacei non sono cozze e quindi si spostano anche di molto. Ma è importante, molto importante, capire dove vanno, perché e cosa regola questi spostamenti.
Avete avuto degli indicatori relativi all’abbondanza o scarsità il cibo in relazione alla presenza di questi animali?
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Purtroppo tutte le prede dei nostri cetacei sono prede non commerciali. Questo è il famoso gap di cui ti dicevo. Non ci sono dati che riguardano le loro prede, perché non essendo specie commerciabili, non abbiamo i dati del pescato e quindi sarebbe necessario avere delle navi oceanografiche che escono in mare, fanno delle pescate apposite, raccolgono e poi forniscono dei dati. Queste non esistono.
Quindi quello che noi facciamo è quello di stabilire delle relazioni indirette fra quelli che sono alcuni parametri oceanografici, che possono essere salinità temperatura è correnti, con i cetacei. È chiaro che al cetaceo importa assai poco della temperatura dell’acqua, della salinità e spesso delle correnti, ma sicuramente questi parametri oceanografici sono invece determinanti per la distribuzione delle loro prede
Ecco perché c’è questa correlazione indiretta tra questi parametri che non influiscono direttamente sulla distribuzione dei cetacei, ma sicuramente influiscono sulle prede dei cetacei. Diciamo quindi che noi arriviamo alle nostre conclusioni con questo piccolo artefatto, che però è consentito nella scienza.
So che voi avete raccolto anche dei piccoli campioni di pelle dei cetacei.
Si, lo abbiamo fatto in passato e si tratta di pezzettini e di grasso veramente minuscoli.
Per analizzare il DNA e altri parametri immagino. Avete potuto constatare anche la presenza di inquinanti pericolosi?
Quando abbiamo fatto dei campionamenti, di pelle e di piccole parti di grasso su diverse specie di cetacei, è stato sostanzialmente per due finalità diverse. La pelle serve soprattutto per tutta una serie di studi di genetica e abbiamo scoperto una cosa importante. Praticamente quasi tutte le specie (manca ancora l’ultima conferma per due di esse ma ci siamo quasi), quasi tutte le popolazioni indagate nel Mediterraneo se confrontate con quelle atlantiche sono separate. Nonostante il passaggio dello stretto di Gibilterra,
Esiste una differenza importante e significativa che sostanzialmente decreta che le popolazioni degli animali che troviamo nel Mediterraneo sono popolazioni mediterranee. Quindi ovviamente a livello di conservazione ancora più piccole e ancora più meritevoli di tutela.
La parte di grasso invece viene utilizzata soprattutto per studiare i contaminanti. Tutte le sostanze xenobiotiche che si accumulano nel corpo degli animali. In particolare quelle che si accumulano nel grasso che sono sostanzialmente gli organo-clorurati come PCB, DDT, oppure i composti aromatici. Tuttavia, ultimamente, l’emergenza maggiore è relativa all’inquinamento delle micro plastiche.
Quali emergenze si devono affrontare ora?
L’emergenza del momento è quella della plastica in mare. Noi ne parliamo da vent’anni ma riusciamo solo adesso ad avere un riscontro anche con i media.
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Oggi è diventato quasi un po’ di moda perché quasi ogni settimana sulle testate dei quotidiani di importanti c’è un articolo su “la zuppa di plastica”, “nel 2050 ci sarà più plastica perché pesce”, ecc.
Insomma è un po’ assurta alla notorietà questa plastica, dopo tanti anni che ne stiamo denunciando la presenza e che come comunità scientifica siamo molto preoccupati.
Il Mediterraneo è uno dei mari più inquinati al mondo per quanto riguarda la micro plastica.
Cos’è la micro plastica? Noi siamo abituati a pensare alle plastiche, alle bottiglie di plastica che galleggiano, ai sacchetti di polietilene, polipropilene, tutti questi nomi stranissimi dei polimeri che costituiscono le diverse tipologie di oggetti di plastica.
In realtà sono tutti pericolosi, ma sono pericolosi per una quantità ridotta di animali. Faccio l’esempio delle tartarughe, che muoiono per ingestione dei sacchetti, oppure di alcuni cetacei come i capodogli o come gli zifi che, un po’ confusi, li scambiano per calamari e finiscono per inghiottire invece dei sacchetti di plastica che fluttuano nella colonna d’acqua. A parte questo, in realtà, sono molto più pericolosi per l’intero ecosistema i frammenti che vengono prodotti da questi pezzi di macro plastiche, cioè tutto ciò che maggiore di 5 mm, perché la plastica biodegrada in quasi e, a volte, in più 1000 anni.
Pensiamo alla bottiglia o ancora peggio a tutto il packaging dei prodotti. Pensiamo al bicchierino di plastica con cui prendiamo il caffè. Pensiamo che qualcosa che noi usiamo per pochi secondi, meno di un minuto, rimane 1000 anni nell’ambiente. È qualcosa che non può trovare un senso. Non si può produrre qualcosa che serve per pochi secondi e creare un tale danno dell’ambiente, che rimanga non degradato per oltre 1000 anni.
E naturalmente non solo se va in mare. Perché anche se viene riciclato ha comunque dei costi di smaltimento quindi è un costo economico e un costo ambientale. È un non senso.
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Purtroppo di queste micro plastiche nel nostro Mediterraneo ce n’è una quantità enorme ma dire enorme non basta, non si capisce. È molto più importante dire una cosa. Proprio nel Santuario Pelagos, in collaborazione con l’Università di Siena, con il Dipartimento della Dott.ssa Cristina Fossi e tutti i suoi colleghi, abbiamo fatto un lavoro di indagine sulle micro plastiche e la loro relazione con un animale che purtroppo, anche non volendo, di esse si nutre. È la balenottera comune che è un filtratore, che filtra migliaia e migliaia di tonnellate di acqua e insieme ai piccoli gamberetti di cui si nutre, il cosiddetto krill mediterraneo (Meganyctiphanes norvegica) ingerisce anche enormi quantitativi di piccolissimi frammenti di plastica.
Facendo quest’indagine abbiamo scoperto che tra la Capraia e l’Arcipelago Toscano la quantità di micro plastiche, ovvero frammenti più piccoli 5 mm, è identica a quella rilevati sotto quelle che vengono chiamate le “isole di plastica.”
Le enormi isole di plastica del Pacifico, sono sette. Non sono vere e proprie isole, in realtà sono dei vortici che accumulano al loro interno la plastica galleggiante. Spesso si parla di questa enorme isola, grande quanto il Texas, formata da macro plastiche e quindi visibili. Ma la quantità di micro plastiche pescate là sotto è identica a quella pescata nel nostro Arcipelago Toscano.
E credo che questo sia più che preoccupante. E mi si dirà: ma la plastica è inerte. Ma non i suoi additivi.
Purtroppo per dare plasticità alla plastica, usiamo una serie di additivi tra cui faccio solo l’esempio degli ftalati, che sono di per sé tossici. Ma non solo. Non solo sono tossici ma questo pezzettino di ftalato dentro un piccolissimo pezzettino di plastica che fluttua nell’acqua, per composizione chimica, ha la capacità attirare attorno a sé e di legare tutta una serie di altri composti tossici. Quindi questi pezzettini così piccoli, che vengono ingeriti, entrano nella complessa rete trofica e ogni organismo che introduce nel proprio corpo un pezzettino di plastica non introduce solo gli additivi di quella plastica, gli ftalati, ma insieme introduce anche tutta una serie di altre schifezze presenti in mare, i contaminanti, che per ragioni chimiche riesce legare. Quindi il danno decisamente maggiore rispetto a quello che ci si potrebbe semplicemente aspettare con gli ftalati.
Tutto ciò entra nella catena trofica. Ma alla fine l’ultimo fruitore non è solo il grande cetaceo o la balena, è l’uomo: nel nostro piatto.
E infatti dico: magari una volta, quando andiamo in pescheria, non facciamoci togliere le interiora. Portiamolo a casa con le interiora, proviamo ad aprire la pancia del nostro pesce. Io sono certa che in molte occasioni ci si ritroverà dentro della plastica. Che alla fine noi mangeremo.
È un quadro piuttosto preoccupante. Che cosa si dovrebbe fare?
È necessario una nuova consapevolezza e un radicale cambiamento di prospettiva: non “gli altri e domani” ma “io e adesso”.
Se il problema è così diffuso lungo tutta la catena alimentare da arrivare fino a noi, occorre cambiare direzione, in qualche modo.
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Occorre innanzitutto consapevolezza. Da parte ovviamente degli organi di gestione, da parte dei governi e da tutti coloro che gestiscono le risorse ambientali, ma anche la consapevolezza da parte di ogni singola persona, in quanto cittadino e in quanto consumatore.
Dobbiamo cominciare a dire che io, adesso, cambio il mio comportamento e mi assumo la responsabilità della mia impronta ambientale.
Io devo essere consapevole e responsabile di quello che è il mio impatto sul mondo. Se io, quando mi sveglio alla mattina, ci penso allora comincio a cambiare il mio comportamento, comincio a cambiare i miei acquisti, comincio a parlarne. Io posso e devo essere convinto che io posso fare la differenza. Perché se continuiamo a pensare che ci sia qualcun altro che lo farà prima o poi, il mondo non cambierà e abbiamo solo una speranza: che ci siano sì le volontà dei governi, ma che cambi anche la nostra mentalità, l’approccio del nostro rapporto con l’ambiente. L’ambiente e la nostra casa, la sostenibilità la dobbiamo ricercare noi ogni giorno.
Sostenibile non vuol dire trovare necessariamente un compromesso fra ambiente è progresso o vita. Significa trovare delle sinergie. Le sinergie esistono ma le dobbiamo trovare e noi in primis, ognuno di noi, deve cominciare a dire io, ora, perché di tempo non ce n’è più molto.
La consapevolezza è importante ma in genere è conseguente alle proprie esperienze personali. Ricordo di essere salito a bordo della vostra barca di ricerca, la Pelagos, vivendo una settimana entusiasmante. Ma l’entusiasmo alle stelle non era solo mio, aveva contagiato tutti i presenti che, come me, non erano affatto dei ricercatori. Qual’è stata, negli anni, la risposta umana ed emotiva di tutte le persone che hanno partecipato alla ricerca dei cetacei sulle vostre imbarcazioni?
Abbiamo aperto alcuni dei nostri progetti di ricerca a normali appassionati. Sulle nostre barche non ci sono solo biologi marini e ricercatori, ci sono sempre cinque o undici posti, a seconda del progetto, che sono disponibili per persone di qualsiasi età, di qualsiasi paese. Vengono veramente da tutto il mondo e, per una settimana, vogliono vivere la vita del biologo marino. Vogliono venire e vivere l’esperienza di incontri straordinari e meravigliosi con questi cetacei, ma anche sentirsi responsabili, coinvolti in prima persona, nel lavoro di ricerca e nel contributo che si può dare alla conservazione e alla tutela di questi animali. E devo dire che hanno fatto tantissimo, noi abbiamo coinvolto in questi trent’anni migliaia e migliaia di persone che hanno fatto proprio il cosiddetto “citizen science”, la scienza fatta dai cittadini. Sono venuti e ci hanno proprio aiutato e quando sono tornati da questa esperienza hanno parlato, hanno raccontato, hanno divulgato.
È un po’ come un virus, un virus che ha contagiato. Questa volta tanto per cambiare è un virus benefico, non uno che porta malattie, non un virus che quanto arriva dentro i nostri computer ci fa passare notti insonni. Ma un virus che in qualche modo contagia il maggior numero di persone facendoci rendere conto che abbiamo un patrimonio meraviglioso; che l’ambiente è la nostra vera casa e dobbiamo poterlo mantenere vivibile per noi stessi e per chi verrà dopo di noi. Dobbiamo trovare assolutamente il modo per trovare le sinergie per vivere in sintonia e godere di questo straordinario patrimonio che è la nostra terra.
Sabina Airoldi, laureata in Scienze Naturali, ha iniziato a condurre ricerche sui cetacei nel 1987, anno in cui è diventata membro di Tethys. Ha contribuito a fondare e gestire lo Ionian Dolphin Project nelle acque della Grecia ionica e ha fondato e diretto lo SLOPE – Squid Loving Odontocetes ProjEct, focalizzato sugli odontoceti che vivono nel mar Ligure occidentale. Oltre al lavoro scientifico (oltre 70 pubblicazioni) si dedica ad attività di divulgazione e sensibilizzazione del grande pubblico attraverso conferenze, convegni e partecipando a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche. Numerosi suoi articoli divulgativi sono stati pubblicati da riviste e giornali italiani ed esteri e molti sono i documentari prodotti con le sue immagini video sui cetacei. Per il suo impegno nella conservazione dei cetacei le sono stati conferiti i titoli “Console del Mare” e “Parmurelu d’oro”. E’ stato membro del Consiglio Direttivo di Tethys dal 1996 al 2000, dal 2001 al 2013 e lo è nuovamente dal 2016. Esperto nazionale in conservazione dei cetacei del Comitato Scientifico di ACCOBAMS, attualmente riveste il ruolo di Direttore del Cetacean Sanctuary Research, un progetto a lungo termine su tutte le specie di cetacei presenti nel Santuario Pelagos, un’area marina protetta internazionale per la protezione dei mammiferi marini del Mediterraneo.